19/01/2021 — IN MEMORIA DI LIBERO GRASSI: IL 41 BIS NON CEDA AL “MISERICORDISMO”
“I paurosi muoiono mille volte prima della loro morte, ma l’uomo di coraggio non assapora la morte che una volta” (dal “Giulio Cesare” di William Shakespeare)
Lo scorso 10 gennaio è stata ricordata la lettera di Libero Grassi rilanciata dal Giornale di Sicilia il 10 gennaio 1991, con la quale l’imprenditore sfidò apertamente la mafia, denunciandone le richieste estorsive e il ricatto criminale.
Trent’anni dopo quella missiva pubblica che ha fatto concludere tragicamente la vita dell’eroe siciliano (“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi“, Bertolt Brecht) e a ventinove anni dalla modifica, dopo il maggio 1992 di sangue, dell’art. 41 bis della legge 354/1975, il c.d. carcere duro per i mafiosi, oltre che per i terroristi politici e religiosi, nazionali ed internazionali, continua ad essere applicato, in attuazione di un decreto del Ministro della Giustizia di volta in volta adottato, ai detenuti ristretti all’interno di istituti a ciò destinati o di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto della struttura (ai primi di gennaio 2020 erano 760 i reclusi di questo tipo sul territorio nazionale), con le seguenti misure: 1) isolamento nei confronti degli altri detenuti; 2) l’ora d’aria è limitata a due ore al giorno e avviene anch’essa in isolamento; 3) Il detenuto è costantemente sorvegliato da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con gli altri poliziotti penitenziari; 4) limitazione dei colloqui con i familiari per quantità (massimo uno al mese della durata di un’ora) e per qualità (il contatto fisico è impedito da un vetro divisorio a tutta altezza), mentre per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti; 5) visto di controllo sulla posta in uscita e in entrata; 6) limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere tenuti nella cella (penne, quaderni, bottiglie, etc.) e anche degli oggetti provenienti dall’esterno: la sentenza della Consulta del 22 maggio 2020, n. 97, ha stabilito l’illegittimità del divieto assoluto di scambio di oggetti fra siffatti detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, gruppo che non può superare le quattro unità.
Questa normativa opera una valutazione fra esigenze di giustizia e rispetto dei diritti della persona a favore delle prime, proprio perché i detenuti sono indagati, processati o condannati per reati di gravissimo allarme sociale, di natura associativa mafiosa e terroristica, ossia per delitti particolarmente odiosi sia per l’intensità e la modalità di aggressione a beni primari dell’essere umano, sia per l’immane e micidiale pericolosità per la Comunità. Le tutele e garanzie, anche di tipo umanitario, del condannato e del detenuto non possono che essere ridimensionate quando il soggetto in vinculis risulta essere ai vertici di una organizzazione criminale, che, fra le sue “peculiarità”, ha proprio uno speciale radicamento sul territorio che si insinua in modo tentacolare nel tessuto sociale. Questa forma con cui si atteggia l’azione delinquenziale, unita a metodi terroristici e sanguinari, deve essere recisa, interrompendo ogni contatto fra il carcerato ed il suo territorio. L’art. 41 bis nasce proprio dalla avvertita esigenza di evitare che dall’interno del carcere il boss possa ancora esercire il suo potere gerarchico, anche in presenza di una detenzione presso una struttura lontana dal “luogo di potere”.
È proprio alla luce di quanto sin ora detto che tale norma è stata ed è una ideazione, una intuizione vincente immessa nell’ordito ordinamentale dopo la strage di Capaci e resa, successivamente, permanente a seguito della legge 279/2002.
Ai critici che hanno paventato il verificarsi di un trattamento carcerario eccessivamente rigoroso, la Corte di Cassazione ha risposto ritenendo legittima la prognosi di pericolosità fondata sulla constatazione dell’assenza di una “autentica dissociazione” o della “acquisizione di valori di legalità” da parte del ristretto ai sensi dell’art. 41 bis.
Oltre il dato giuridico di ordine penale, costituzionale e penitenziario, v’è un elemento di ordine metagiuridico, morale ed introspettivo che punteggia e sottende la condizione prefigurata nella disposizione in parola: la civiltà, presupposto di tutti i nostri valori, dei nostri diritti e delle nostre libertà, è la forza propulsiva che spinge il consorzio umano dalla legge del più forte all’aiuto dei deboli, dei vulnerabili e dei fragili, dalla soppressione del rivale alla protezione della vita umana. La memoria personale e collettiva aiuta a conservare e implementare il sentimento di appartenenza ad una civiltà fondata sul senso di giustizia. Non v’è civiltà senza giustizia, non sussiste giustizia senza memoria, né rispetto della memoria senza certezza della pena, garanzia per la Comunità e per lo stesso detenuto. La natura retributiva richiede una pena certa che sia espiata per intero nel rispetto dei dettami costituzionali e della regolamentazione legislativa.
Lo Stato di diritto riposa sulla certezza della pena come ci insegna il pensiero di giuristi e filosofi lungo i secoli (“De l’Esprit des loix” di Montesquieu nel 1748; “Il contratto sociale” di Rousseau nel 1762; “Dei delitti e delle pene” di Beccaria nel 1764).
Al fine di assolvere alla sua naturale funzione preventiva generale e speciale, la pena, oltre che proporzionata, deve essere certa. La certezza costituisce la funzione deterrente della sanzione e, se la certezza riguarda un castigo particolarmente duro a fronte di condotte efferate, l’effetto che ne scaturirà sarà ancora più retributivo e maggiormente in linea con il diffuso sentimento popolare di giustizia: innanzi ad azioni od omissioni spregevoli e di notevole nocumento per la persona, la società e lo Stato, la certezza della punizione deve affiancare una condanna caratterizzata dalla severità per la sua durata e per la sua applicazione, nel rispetto, ovviamente, dell’art. 27, comma 3, Cost. (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”).
L’augurio è volto a che queste ricorrenze non siano solo stantii e stanchi riempitivi di calendari, bensì solide ed autentiche occasioni per rafforzare, sia sul fronte interno che su quello sovrastatale, la lotta alla mafia, o meglio, come detto in un precedente articolo, alle mafie (con la “m” sempre volutamente minuscola).
Prof. Fabrizio Giulimondi