IL NATALE, FONTE DI RICORDI E RICHIAMO ALLA NOSTRA IDENTITA’
Ammetto che ho pianto quando alla soglia degli otto anni ho appreso da un amico di scuola della “fantasia” del Babbo Natale e della Befana (resto volutamente sul vago nel caso in cui qualche lettore fosse ancora piccolo, o qualche adulto, fortunato lui, ci credesse ancora). A dire il vero, ero più legato alla seconda che al primo, forse perché il mio spirito di difensore degli ultimi (a scuola mi chiamavano “l’avvocatino”) mi induceva a legarmi di più con chi, quantomeno in apparenza, sembrava meno fortunato, costretto nel nostro caso a volare al freddo ed al gelo su una vecchia scopa.
Temevo probabilmente che la “verità” portasse via, in un colpo, solo la magia delle feste, quei quindici giorni circa che sembravano infiniti e pieni di gioia, trascorsi lontano dalla scuola, già questa circostanza fonte di assoluta felicità, immersi in un’aria di allegria e di generalizzata bontà (buonismo forse, ancora non so). Ricordo come ogni anno l’arrivo del Natale e delle relative feste fosse annunciato dalla mia creatività riposta nel realizzare il presepio, di fatto identico ogni anno se si eccettua l’altezza delle montagne poste in lontananza e la falsa luna che veniva posizionata, perché risplendesse di finta luce propria, in corrispondenza della presa della corrente che, a sua volta, spuntava da qualche cima, non so perché abbondantemente innevata, sintomo di scarsa conoscenza geografica dei luoghi che hanno visto nascere il Signore. Era davvero emozionante riaprire ogni anno la scatola rossa che conteneva i personaggi e gli animali, che, a dire il vero, mi affascinavano già all’epoca più degli uomini, che collocavo con uno scarso senso della prospettiva. Oltretutto, soltanto crescendo ho compreso l’errore di fondo commesso nell’imbastire in giovane età il presepio, peraltro nel silenzio rispettoso dei genitori, posizionando sino da subito nella culla Gesù bambino, quasi che la sua nascita fosse anticipata rispetto alla data indicata dalla liturgia cattolica (una sorta di riforma liturgica ante litteram, cui quest’anno si assiste ad opera di qualche ministro, nell’assordante silenzio di molti, troppi sodali “religiosi”). Soltanto successivamente, a distanza di alcuni giorni, mettevo mano all’albero di Natale, rigorosamente “vero”, destinato ogni anno, nonostante gli sforzi quotidiani, a seccare sul terrazzo di casa, meno capace di emozionarmi in quanto posizionato nella mia mente di bambino a metà strada tra l’arrivo del Messia, rappresentato dall’incanto del presepio, e l’arrivo della Befana, poco “liturgica” ma portatrice a casa mia dei regali, considerato pertanto più un abbellimento dell’abitazione che non un vero epifenomeno della festa. Tuttora il presepio è sempre il presepio, anzi forse lo è ancora di più, dal momento che il vederlo sistemato in casa mi riconduce con la memoria ai bellissimi momenti trascorsi da bambino, nel ricordo indelebile di coloro che ci hanno lasciato ma che erano parte integrante, fondamentale di quei momenti di estrema felicità così come della mia vita (in primo luogo mio nonno che, invalido, doveva essere trasportato sulle braccia sino al quarto piano del condominio in cui vivevo, uomo capace di affrontare con il sorriso ogni difficoltà, che ha lasciato in me ricordi bellissimi). Sarà per questo ricordo così vivo che ho del presepio e delle emozioni sane (lasciatemelo dire) che allo stesso si ricollegano, che trovo davvero disdicevole la richiesta ripetutamente avanzata da menti solitamente progressiste, in nome di una sorta di massificazione complessiva e di uno pseudo-contrasto al cosiddetto nazionalismo (quale?), di abolire il presepio in quanto annunciante la nascita di Gesù, come tale potenzialmente offensivo di chi appartiene ad altre religioni, troppo legato a tradizioni che debbono, a loro dire, trovare superamento in una società senza muri e con innumerevoli ponti. Al di là del fatto che ogni tradizione, religiosa o laica che sia, deve essere rispettata, sempreché sia rispettosa dei diritti altrui, in quanto richiama le origini di un popolo ed i suoi valori, mi chiedo davvero quali rischi comporti una festa che richiama la nascita del Messia, o, comunque, per i non credenti, di un uomo certamente rivoluzionario che, al di là dei cattivi maestri (l’errata esegesi del testo ha condotto ai barbari fenomeni, come l’inquisizione e le sue derive, di cui ho parlato la scorsa settimana in relazione all’affaire Tommaso Crudeli, e la caccia alle streghe, colpevoli soltanto di essere donne portatrici di un modo diverso, innovativo, come spesso accade, di vedere la società dell’epoca) per la prima volta poneva la donna nei ruoli chiave di quella che sarebbe diventata la religione che ha plasmato l’Occidente. Non so se davvero il modello occidentale sia destinato ad un lento epilogo come evidenziato da alcuni filosofi e se la religione nella quale lo stesso ha affondato le proprie radici – all’insaputa dei politici europei nonostante i ripetuti richiami del Papa emerito -, quale guida spirituale che ha marcato l’Occidente, seguirà lo stesso destino, ma sono certo che la salvaguardia delle nostre tradizioni, ripeto, laiche e religiose, sia un imperativo categorico in un sistema che oramai, in forza del nichilismo imperante, impone l’idea di una casa comune che disconosca l’identità dei popoli che la compongono, casa comune che diventa pertanto negazione di ogni identità storica, culturale e morale, lungo quel pendio che come evidenziato dal professor Gotti Tedeschi conduce inesorabilmente ad un nuovo “umanesimo denso di cinismo”.
Silvio Pittori