PERDONISMO ED INDULGENZA ASSOLUTA: GLI EFFETTI DELL’ASSENZA DEL CONCETTO DI COLPA NELL’AGIRE UMANO
Più volte in precedenti scritti ho evidenziato come la nostra società sia diventata una società in cui ogni individuo risulta titolare di infiniti diritti e, nel contempo, privo di obblighi. Raramente sentiamo discutere di obblighi, mentre quotidiana la sottolineatura dell’esistenza di innumerevoli diritti, di cui ogni individuo sarebbe ed è portatore.
Di pari passo, logicamente, l’affermarsi di una società privata del senso di colpa, individuale e collettivo, sfumato nel perdonismo assoluto, alla ricerca costante di responsabili esterni all’io agente. Siamo di conseguenza chiamati ad assistere ad una società, anche per questo in lento declino, in cui è venuta meno la legge del contrappasso che da sempre trae origine dal rapporto particolarmente stretto fra colpa e punizione: la colpa in cui affonda le radici la condotta “ingiusta”, richiama la punizione come effetto della prima, nella sequenza condotta, colpa, punizione. Uso il termine colpa non come concetto di colpa ontologica ma come presupposto soggettivo del verificarsi della condotta. Il venire meno di detto legame, il suo annullamento nella storia moderna della società, lo possiamo certamente ricondurre alla sovrapposizione tra la dottrina marxista ed una lettura perdonista della dottrina cattolica che, come posto in evidenza da Raffaele Simone nell’interessante libro “Il Paese del Pressappoco”, ha dato la stura ad un buonismo diffuso sul presupposto che non giudicando gli altri si garantisce a noi stessi di non essere giudicati (assenza pertanto ancora una volta della colpa, quale elemento ipotetico del giudizio). Tutto ciò si traduce quindi in un eccesso di perdonismo, perdonismo ad ogni costo, in quella ricerca anch’essa eccessiva del motivo sottostante ad ogni azione, che, così analizzata, richiama alla massima indulgenza. Quindi l’azione, seppure tenuta in violazione di regole scritte, resta impunita a seguito della continua destrutturazione della colpa, colpa di cui neanche l’agente ha inevitabilmente più percezione. Ovviamente lungi da me anche soltanto l’idea di richiamare la colpa come morbo da cui purgare l’anima del reo, restando al contrario fedele ad un concetto secolare della colpa distinto dal concetto di peccato, come coscienza del bene e del male cui il senso di colpa solitamente si richiama, per l’agente così come per colui che è chiamato a giudicare. Si arriva così a minare alla radice il principio fondante di ogni società, per cui le regole devono esser rispettate, giungendo a disconoscere persino le nostre tradizioni, che fanno parte della nostra cultura, pur di tollerare e giustificare il mancato rispetto delle regole, con giustificazioni di ogni sorta, tipiche dell’analisi casuistica. Non possiamo negare che tutto ciò abbia fatto ingresso anche nelle aule di giustizia, dove da tempo Caino è al centro del palcoscenico, anche a discapito di Abele, con un perdonismo diffuso nei confronti di una certa tipologia di reati e di imputati. Ed allora accade che una mia cara amica, vittima di un efferato reato, veda avviarsi il processo nel quale veste ovviamente i panni della vittima (Abele appunto) ad una oramai inevitabile prescrizione in primo grado, senza che ciò richiami la colpa di chi ha lasciato che ciò accadesse con ritardi ed errori formali, quasi che tale accadimento fosse e sia inevitabile in natura. Con l’effetto che il reo si sottrarrà alla punizione richiamata dalle norme, e la vittima vivrà nuovamente il dolore dell’offesa ricevuta davanti all’assenza del binomio colpa-punizione su cui si fonda il patto sociale, che giustifica la delega allo Stato dell’esercizio di alcuni dei nostri diritti fondamentali, come quello di difendersi e quello di farsi giustizia. Evitiamo sul tema il solito racconto che per impedire il maturare della prescrizione l’unica cura sarebbe rappresentata dalla modifica della normativa in tema di prescrizione, nel senso della creazione di un processo penale senza fine, quale panacea dei mali della giustizia: la cura, al contrario, si chiama o, meglio, si chiamerebbe, ritorno all’etica ed al senso di responsabilità, che, guarda caso, richiamano ambedue ancora una volta il concetto di colpa. Mi tornano alla mente alcune parole scritte da un caro amico magistrato ”la compassione è amore disincarnato, incondizionato, amore deprivato dell’impulso erotico, è capacità di sentire l’altrui dolore come fosse il proprio“: auspico che si possa quanto prima tornare ad una società che sappia fare rispettare le regole senza un indiscriminato perdonismo a priori ed un eccesso di indulgenza, connessi ad una ricerca senza fine dei motivi dell’agire nell’incessante tentativo di cancellare la colpa, riponendo al centro del palcoscenico il rispetto dell’altrui dolore che soltanto la punizione riconducibile alla colpa ed al suo accertamento può in parte alleviare.
Silvio Pittori