Lo sprito delle leggi ed il popolo sovrano: ingiustizia e’ ancora fatta.
Il fatto è o dovrebbe essere noto a tutti: il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Arezzo ha respinto la richiesta di archiviazione per il reato di omicidio e ordinato un supplemento di indagini, a carico Fredy Pacini di anni 61, il quale, nella notte del 28 novembre 2018, esasperato dai continui furti subiti nella sua proprietà commerciale di rivendita di gomme e biciclette tanto da vedersi costretto a dormire all’ interno di essa, ha sparato con la sua arma legalmente detenuta e ucciso un giovane moldavo che si era introdotto nella sua officina con l’intento di rubare.
Il pubblico ministero titolare delle indagini preliminari, al termine delle stesse, ritenendo ricorrenti i requisiti per la sussistenza della legittima difesa putativa, ne aveva infatti richiesto la relativa archiviazione vedendosela respingere come dire “in punta di diritto”.
Il Gip nella sua ordinanza ha infatti colto delle incongruenze nella richiesta formulata dal pubblico ministero allorchè finisce per “ammettere che la reazione del Pacini sia stata ‘oggettivamente sproporzionata’ dopo aver poco prima sostenuto di escludere ogni profilo di colpa in capo all’indagato; concludendo che seppure questi abbia potuto eccedere colposamente i limiti imposti dalla ritenuta situazione di necessità, lo stesso non sarebbe comunque rimproverabile per il grave e anzi estremo allarme che ha inciso sulle sue capacità di freddo discernimento e razionale contenimento”. Sempre il Gip ha poi ritenuto che l’azione difensiva sarebbe stata posta in essere ‘in anticipo’ all’ atto dell’ intrusione, “facendo così venir meno l’attualità del pericolo, laddove il Pacini possa davvero essere caduto in errore in merito al fatto che l’intruso avesse o meno la disponibilità di un’arma”. Di qui la richiesta di un supplemento di indagine in particolare sugli aspetti legati all’arrivo delle forze dell’ordine al capannone, la disattivazione dell’allarme, la frattura interna e fatale riportata dal ladro, sul puntatore laser e la torcia in dotazione con l’ arma usata.
Sin qui i fatti che come comprensibile hanno scatenato una ridda di polemiche sui social e sui media, laddove pressoché all’ unanimità è stato gridato alla vergogna di una ulteriore pagina nera per uno Stato di diritto che in virtù di un patto sociale, come ebbe a definirlo Loocke nello “spirito delle leggi”, pretenderebbe parte delle libertà e dei beni del cittadino in cambio della garanzia a quest’ ultimo della protezione della sua persona, dei suoi famigliari e dei suoi beni. Un patto così posto che sembrerebbe lontano invece da uno Stato che pare molto più garantire chi delinque rispetto a chi molto più semplicemente difende se stesso ed i propri beni. Ma, come si sa, con buona pace di Abele, “Nessuno tocchi Caino”.
Come ebbi modo già di dire la questione non verte sulla legittimità formale del provvedimento giudiziale che,condivisibile o meno nel merito, giuridicamente viene sorretto da quella che è una giurisprudenza più o meno consolidata susseguitasi a quella che fu la riforma della legittima difesa in virtù del novellato art. 52 del Codice penale.
Una riforma, quella del 2006 (l.n. 59) e del 2019 (l. n.36), lo si ricordi, assai contestata da parte di quella dottrina maggiormente garantista e che vedeva in essa una sorta di incitamento al “fai da te” e ad un “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” nel farsi giustizia.
Invero, posta la regola generale della legittima difesa, ossia la scriminante o la non punibilità di chi, rispettando la proporzione tra offesa e difesa, commette il fatto costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro un pericolo attuale di una offesa ingiusta (vim vi repellere licet), le novelle di cui sopra avevano infatti tentato di rimuovere l’ ampia discrezionalità dei giudici, quasi sempre favorevoli all’ aggressore, nella valutazione dei requisiti di cui sopra laddove la norma novellata specificava che nei casi in cui si trattasse di difendere il proprio domicilio, sussista sempre quel richiesto criterio di proporzione qualora l’ arma usata era al fine di difendere la propria o altrui incolumità i propri o altrui beni, a condizione che non vi sia desistenza e sussista il pericolo di aggressione. Ribadendo in definitiva che sussista sempre la legittima difesa da parte di chi voglia respingere una intrusione posta in essere con minaccia di uso di armi o altri mezzi di coazione fisica.
Una sorta quindi di presunzione assoluta voluta, ope legis, dal legislatore dell’ epoca in ordine alla sussistenza della proporzione richiesta dalla norma sulla base di una ritenuta prevalenza dell’ interesse dell’ aggredito rispetto all’ aggressore.
Come noto alla riforma segui un violento dibattito sia dottrinale, ma quel che peggio giurisprudenziale, che fece si che l’ ideologia predominante all’ interno della nostra magistratura, riuscì a vanificare gli sforzi del legislatore escludendo la suddetta sussistenza automatica del requisito della proporzionalità, riappropriandosi così del potere di libera interpretazione della norma e facendo così rientrasse dalla finestra quel che era finalmente uscito dalla porta pur spostando l’ onere della prova in tal senso sulla pubblica accusa.
In definitiva, come direbbe il Carnelutti, il criterio di libera valutazione del fatto “onde rivestire con la carne concreta di questo lo scheletro della norma” venne conservato dalla magistratura dominante più garantista (a senso unico per il vero), in ordine a cosa debba intendersi per aggressione ingiusta, quando debba ritenersi legittima la reazione dell’ aggredito, sul concetto di attualità del pericolo escludendo la possibilità di una difesa anticipata, e, da ultimo, last but not least, se vi sia o meno la imprescindibile proporzionalità tra difesa e offesa, da valutarsi ovviamente ex ante ed i cui parametri sono e resteranno (lo sanno bene i giudici) di assai difficile contorno.
In estrema sintesi pertanto, con buona pace del legislatore dell’ epoca, ed in disprezzo della relativa ratio legis, di venire incontro a quelle esigenze di difesa sociale che come un grido di dolore si innalzava dalla comunità, buona parte dei giudici appartenenti per lo più ad una precisa corrente ora sotto inchiesta a seguito dello scandalo delle intercettazioni, ritennero che non poteva darsi nessuna presunzione legale ma tutti i requisiti di cui sopra andassero da loro autonomamente accertati ed interpretati secondo il loro personale modo di vedere. Nessuno osi toccare Caino: appunto. Quindi pur essendo mutato il concetto di proporzionalità che in determinati casi andrebbe presunta, sarà quindi necessario comunque svolgere una “attenta verifica” sulla sussistenza dell’ attualità del pericolo e della legittimità della reazione dell’ aggredito.
Sulla scia di questa deriva giudiziaria, fu pure vanificato l’ ulteriore sforzo del legislatore di rispondere alle esigenze di difesa di Abele nei confronti di Caino allorchè con una ulteriore riforma di cui alla legge n. 36/2019, volle far fronte a questa deriva giudiziaria e ulteriormente ribadire che nei casi di intrusione nel proprio domicilio o nei luoghi di lavoro “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie l’ atto per restringere una intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o altri mezzi di coazione fisica”.
Con quella riforma il legislatore voleva in definitiva ribadire una presunzione assoluta di sussistenza di legittima difesa nei casi di violazione di domicilio soprattutto se l’ agente ha agito in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di percolo in atto. Una novella nemmeno a dirlo che sollevò numerose critiche da parte dei magistrati che ritennero in tal caso venisse completamente svuotato il loro straordinario potere discrezionale che, sia detto per inciso, è un potere senza responsabilità visto che l’ ordinamento esclude la responsabilità dei magistrati nell’ esercizio della loro funzione. Cosa quest’ ultima che, come tutti sanno costringe l’ Italia a pagare ogni anno enormi sanzioni economiche imposte dalla Corte Europea di Giustizia. In poche parole a dispetto della volontà del legislatore e del Parlamento che con le sue leggi dovrebbe rappresentare la volontà dello Stato comunità ossia del popolo, la legittima difesa, anche nella sua nuova formulazione, continua e continuerà a essere applicata sempre e comunque dal giudice secondo il suo “personale” modo di vedere. Sarà il giudice a valutare i pericoli connessi a un’aggressione o se un aggressore si è arreso o meno o se c’è stata o no “un’intrusione” violenta e, soprattutto, sarà pur sempre il giudice a decidere se la situazione era tale da averti creato un “grave turbamento”.
Se così è più che sul profilo dell’ ossequio alla norma e quindi sul rispetto del principio della legalità formale, (non contraddittorietà dell’ agire alla norma), il problema si pone semmai sotto il profilo della legalità sostanziale ossia se è stato rispettato quella che era la effettiva volontà del legislatore e se questa rispondeva a quel comune e diffuso sentire di quella comunità che il legislatore è chiamato ad interpretare attraverso la produzione di quelle leggi e quelle regole che quella comunità spontaneamente intende darsi e deve darsi essendo il diritto un fenomeno sociale prima ancora che un fenomeno giuridico,
In queste pagine mi ero travato ad affermare di quella necessità di una profonda riforma della magistratura con l’ assoluta necessità di addivenire ad una separazione delle carriere tra la cosiddetta magistratura inquirente, titolare dell’ azione penale, che nulla ed altro dovrebbe essere che un avvocatura dello Stato apparato come avviene nel processo anglosassone da cui è stato tratto il rito accusatorio del nostro attuale codice di rito, ed una magistratura giudicante essa si necessitante di indipendenza ed autonomia rispetto agli altri poteri dello Stato in generale e delle parti in giudizio.
Ma come affermavo in precedenza, e come dimostra questa vicenda il cui vulnus viene non dall’ azione penale, ma dal modo in cui si è ritenuto di esercitare la giurisdizione, non sono solo i profili attinenti alla organizzazione del potere giurisdizionale rispetto al potere legislativo e di indirizzo e del potere esecutivo, a garantire il rispetto non solo di quel principio della separazione dei poteri con cui nello Stato di Diritto rispetto allo Stato Assoluto è stata opportunamente dissolta l’ unicità della sovranità per attribuirla al popolo, ma anche le modalità di esercizio della giurisdizione che dovrebbero essere posti a garanzia e riconoscimento dei diritti inalienabili dei consociati, vuoi uti cives prima, ma vuoi ancora di questi uti singuli.
In definitiva nell’ inevitabile riforma della Costituzione se da una parte rimane una conquista di diritto la separazione dei poteri ed il loro bilanciamento secondo il noto principio del check and balance, deve tuttavia essere tenuto fermo che nessun potere può nell’ esercizio della sua funzione raggiungere un risultato che sia antitetico rispetto al supremo volere della comunità in cui risiede il potere costituente e da cui la costituzione trae la sua origine. Esistono in definitiva quei principi generali dello Stato che vanno e devono comunque essere rispettati onde evitare che pezzi dello Stato si muovano contro altri pezzi dello Stato producendo quel corto circuito a cui oggi noi troppo spesso assistiamo impotenti così come vedere nel caso dell’ esercizio della giurisdizione il paradosso di un ministro della repubblica a processo per aver difeso i diritti degli italiani o una persona aggredita in casa condannata in vece del suo aggressore o ancora scarcerare uno spacciatore in quanto è legittimo spacciare se si tratta di sopravvivere o stuprare laddove non si possa pretendere che lo stupratore clandestino possa sapere nella sua cultura che è vietato violentare un donna o ancora pericolosi boss scarcerati per l’ eccessivo mancato ossequio di un cavillo legale.
In definitiva quello che viene a mancare è la previsione costituzionale che la subordinazione ed il rispetto formale delle leggi non possa tradursi in un palese vulnus a quel senso di giustizia e legalità di cui si sente il bisogno. In fondo lo stesso Cicerone nel de officiis non mancava di osservare che summa jus equivaleva a summa iniuris. Ma quello era appunto il diritto romano per secoli ritenuto la culla del diritto. Peccato che ad oggi nella culla vi sia finito il diritto, questo diritto troppo attento alle ragioni di Caino, e poco o nulla attento alle ragioni di Abele e delle vittime. Ma questo è il sangue degli innocenti…non macchia.
Mauro Mancini Proietti